La giustizia è prima di tutto una virtù umana:
giustìzia s. f. [dal lat. iustitia, der. di iustus «giusto»]. – 1. a. Virtù eminentemente sociale che consiste nella volontà di riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge; b. In senso assoluto e più oggettivo, il riconoscimento e il rispetto dei diritti altrui, sia come consapevolezza sia come prassi dell’uomo singolo e delle istituzioni… etc.
Per parlare di in-giustizia ho scomodato Platone
[La repubblica, libro primo]. I protagonisti della storia sono Cefalo e Socrate. Cefalo è una persona anziana arrivata alla stagione in cui si fa un resoconto della propria esistenza. Un bilancio più che positivo, racconta Cefalo, ma ha qualche peso sulla coscienza e teme di aver commesso qualche ingiustizia che vuole risanare. Le sue possibilità economiche gli consentono ora di poter “restituire”. Non è l’istituzione o la comunità che gli chiede di fare giustizia, è lui che nella sua riflessione si colloca nella posizione di possibile offensore. Guarda alla propria vita e pensa “Può darsi che io stesso abbia fatto qualcosa che non va, e allora le disponibilità che ho possono servirmi per tutto questo”.
Da questa considerazione nasce un dibattito che prosegue con Polimarco figlio di Cefalo a partire da un detto del poeta Simonide: “giustizia è restituire il dovuto”.
Cosa e a chi restituire? “Se una persona ci fa del bene – è stato un nostro benefattore allora è semplice, restituiamo quello che gli dobbiamo e quindi del bene”. Ma cosa si intende per bene?
Il bene è qualcosa che mi fa bene o che io percepisco come tale?
Una definizione che a Platone appare semplicistica. Se qualcuno mi fa qualcosa che percepisco come male, ma che invece è il mio bene, allora come faccio a capire cosa sia restituire il dovuto?
Se percepisco che quella cosa è soggettivamente un male potrei pensare di restituire il dovuto e finirei per restituire male a chi mi ha fatto del bene. (pensiamoci in termini educativi: un genitore può pretendere dei risultati dai propri figli che vengono percepiti come fatica, come male. Insegno a mio figlio come tagliare l’erba del giardino – ovvero acquisire una competenza – ma magari lui preferirebbe testare la comodità di una poltrona. Immagino che per lui sia difficile capire che è per il suo bene futuro)
Ma andiamo avanti. Platone fa un ulteriore passo e sposta l’attenzione dall’azione a chi la compie. Ovvero: per capire se ciò che mi viene fatto è un bene o un male non guardo la cosa che mi viene fatta ma a chi me la fa. Se è amico suppongo che qualunque cosa sia, sarà un bene anche se la percepisco male.
In altre parole, mio figlio dovrà supporre che sto pensando al suo bene chiedendogli di tagliare l’erba invece che starsene stravaccato sulla poltrona. Sposto l’attenzione da ciò che percepisco a chi agisce nei miei confronti.
Riassumendo: significa allora che agli amici, una volta riconosciuti come tale, restituisco il bene e ai nemici il male? Accidenti, neppure questo funziona bene se ci ricolleghiamo a quanto ha affermato Maritain parlando di bene e male.
Restituire bene agli amici e male ai nemici
Ammettiamo per un attimo che si debba restituire bene agli amici e male ai nemici. Ma se un nemico mi ha in qualche modo avvantaggiato cambia lo statuto di nemico? Diventerà amico o continuerà a essere nemico?
Roba da matti… La riflessione si complica ulteriormente. Ciò che ad un certo punto appare chiaro è che la giustizia è prima di tutto una virtù umana (prima che una azione sociale).
Caratteristica dell’uomo è agire promuovendo il bene, trovando gli equilibri che rendano il giusto e moltiplichino il bene. Cioè, la capacità di agire bene in maniera equilibrata in qualunque situazione, questa è la giustizia.
Se questa è una virtù umana e trattiamo male gli uomini – dice Platone – non è che li stiamo compromettendo come esseri umani, li mortifichiamo nella loro migliore qualità tipica?
Non li rendiamo forse più ingiusti?
Il problema delle virtù
Il problema delle virtù è che sono impegnative e faticose da gestire. È sfibrante immaginare che le offese che riceviamo debbano essere affrontate, condivise, chiarite e infine – ma molto infine – risolte. Soprattutto fatichiamo a immaginare che poi ci si possa sentire meglio entrambi.
Quello che mi preme sottolineare è che non mi sto riferendo a cose “importanti” che ci sembrano talmente grandi da non essere neppure prese in considerazione, ma delle piccole cose di tutti i giorni. Del fatto che la sottrazione cui siamo stati vittima va contestualizzata, accolta e poi capita.
Come mi è capitato di dire altre volte non è che la persona che oggi ci ha “maltrattato” si è svegliata la mattina con il preciso scopo di offenderci. Prima di re-agire usciamo dalla posizione – spieghiamo come ci siamo sentiti e chiediamo all’altro come si è sentito lui/lei, cosa l’abbia spinto ad agire in quel modo.
Attraverso il confronto e il dialogo si possono scoprire mondi sconosciuti, non dobbiamo per forza diventare amici ma alleggerire la nostra esistenza si, quello lo possiamo fare.
Nel prossimo post vedremo più nel dettaglio il ruolo della vittima.
Stay Tuned!
