Ci siamo lasciati con una domanda: perché la giustizia riparativa ha preso in considerazione chi subisce il male, ovvero la vittima del reato? L’intento di questa riflessione è esplorare l’esperienza del male, il ruolo del desiderio e di cosa si intende per sottrazione.

L’esperienza del male sorge da una sottrazione subita che innesca una ricerca di riappropriazione e di soddisfazione… secondo Jacques Maritain: “Ens et bonum convertuntur. Il bene è essere, è pienezza o compimento di essere. […]. Il male al contrario, di per sé o in quanto male, è assenza di essere, privazione di essere, ossia di bene. È un nulla che corrode l’essere. […] il male non è in alcun modo essere, è soltanto vuoto o mancanza di essere, nientificazione e privazione”. In altre parole, non c’è simmetria tra bene e male:

  • bene ed essere sono qualcosa di consistente, sono il pieno;
  • il male è invece il vuoto, è corrosione, è privazione.

Seguendo questa logica rispondere al male (che è privazione) privando chi ha offeso, non può essere ripristinare un bene.

Se fare giustizia significa ristabilire un equilibrio venuto a mancare, propagare ulteriore male non metterà a posto le cose.

Eppure, nel tentativo di fermare la violenza (il male), la nostra società adotta queste regole:

Hai fatto del male? Pagherai il tuo debito con la giustizia, sperimentando la privazione attuata nei confronti di altri.

Apriamo una parentesi

La sottrazione appartiene alla quotidianità ed esiste da sempre così come il male che non possiamo risolvere. Misurarsi con orizzonti impossibili caricandoci del peso dell’umanità, non solo è utopico ma neppure ci fa essere di reale aiuto. Tuttavia, mentre estirpare il male non è possibile, conoscerlo ci permette di prenderne le misure.

Rene Girard, antropologo, (negli anni ’70) studiando i rapporti tra violenza e sacro si è interrogato sul modo in cui la violenza viene da sempre sperimentata e si trasmette nelle comunità:

  • Perché ad un certo punto in una comunità nascono i conflitti?
  • Perché nascono frizioni tra persone che evolvono in forme di tensione sempre più acuta?
  • Perché le frizioni diventano violenza e come hanno fatto storicamente le comunità arcaiche a gestire tutto questo?

I suoi studi hanno individuato alcune costanti, è necessario pertanto capire:

  • come ingabbiare la violenza (che ci sorprende sempre);
  • come scorgere i suoi tempi di incubazione;
  • come prevenirla, se possibile;
  • soprattutto come provare ad arginarla perché non distrugga una comunità.

Le sue conclusioni lo hanno portato a ritenere che i temi di sacro e ritualità, dei riti religiosi e non solo, hanno lo scopo di governare la violenza che nasce in una comunità.

Ma come nasce la violenza?

Il desiderio mimetico è uno dei primi temi sviluppati dall’autore.

Il nostro desiderio – egli afferma – si struttura per lo più in modo imitativo. Desideriamo spesso qualcosa perché qualcun altro la desidera, anche se non sempre ne siamo consapevoli.

Nell’antichità, ma ancor più nei giorni nostri, la varietà di stimoli a cui siamo sottoposti sollecitano continuamente i nostri desideri. Accade che costruiamo relazioni di comunità che sono anche relazioni di rivalità anche se non necessariamente cattive; rivalità che si strutturano in modo sottile e ordinario.

Immaginiamo di dover parcheggiare la nostra auto e un attimo primo qualcuno prende lo spazio che avevamo individuato, succede… non è per forza uno sgarbo è una rivalità fisiologica.

In altre parole, in ogni comunità fatta di persone e risorse “finite”, la rivalità è fisiologica.

Va considerata anche la rivalità psicologica: non ci misuriamo sugli altri o con loro perché hanno idee diverse da noi, ma pian piano entriamo in conflitto a causa del desiderio come elemento di fondo.

L’altro ci mostra qualcosa che desidera, a cui attribuisce valore, noi riconoscendoci al suo stesso livello pensiamo: se ce l’ha lui, ne ho diritto anche io, valiamo allo stesso modo no?

Quindi, nelle comunità si desidera ciò che desiderano gli altri, l’allinearsi sui desideri favorirà delle micro-rivalità. Non è la cattiveria del singolo, ma della struttura di una società in cui i “beni sono finiti”.

Eppure, la dinamica del conflitto la comprendiamo solo nella riflessione, non quando stiamo litigando. Anche se in quel momento non ce ne rendiamo conto, qualcosa di sicuro avrà acceso la miccia, c’è una incubazione.

Riassumendo: il desiderio crea conflitti fisiologici a causa della finitezza delle risorse. Dovremo così fare attenzione ai desideri e alle cose che valorizziamo, potenziali detonatori di dinamiche di violenza.

Ma cosa succede quando entriamo in conflitto?

Quando desideriamo qualcosa e non possiamo averla, viviamo un sentimento di sottrazione; cosa accade allora dentro di noi?

Qualcosa dentro di noi si anima, comincia a borbottare, anche se non riusciamo a identificarne origine e misura. Un sentimento che può spingerci a rivalerci su una persona. 

Una miscela molto esplosiva!

Ricollegandoci per un momento al tema della giustizia: gli antichi avevano capito che il grande problema del conflitto non erano gli autori di reato ma le vittime. Cosa farà la vittima se non trova risposta alla sottrazione subita, se non trova riparazione? Cercherà di procurarsela e non sappiamo in quale modo lo farà, e non perché è cattiva o immorale.

Il vissuto di sottrazione [che abbiamo capito essere esplosivo], quella rabbia, quel dolore non è detto che la vittima la scarichi su chi ha agito nei suoi confronti. Quando accade qualcosa al lavoro, non è raro che la frustrazione subita trovi sfogo a casa, in famiglia anche se loro non c’entrano nulla.

Aggiungerei che si vive un sentimento di sottrazione anche quando non vengono soddisfatte le nostre aspettative. Se il nostro benessere lo riponiamo su una aspettativa (sarò felice se avrò ciò che desidero) e questa viene disattesa da una persona, una situazione, oppure anche dalla vita stessa, come ci sentiremo?

Accumulare sottrazioni nel tempo rende imprevedibile il modo in cui il fardello verrà alleggerito.

Questo è il grande pericolo della comunità, la vittima porta dentro di sé una bomba a orologeria che non sappiamo se, quando e come esploderà. Prima o poi la sottrazione subita uscirà, ma non ne conosciamo né le modalità né i tempi.

Cosa fa il nostro sistema penale?

Si concentra sugli autori di reato, ma dietro a questa idea c’è una illusione: “catturare e infliggere una punizione all’autore di reato soddisfa la vittima”.

Viene allestito un teatro sociale in cui si chiede alla vittima di diventare spettatore, la mano pubblica trova chi le ha fatto del male e con la stessa mano lo punisce. Tu vittima guarda questo spettacolo, come se questo fosse sufficiente a placare la tua angoscia e darti soddisfazione.

Quello che viene a mancare è uno sguardo umano alla vittima, non per compatirla, bensì permetterle di esprimere la sua sofferenza da un lato e di scaricare quel vissuto di sottrazione subito dall’altro.

Essere spettatori non risolve, le vittime in ultima analisi diventano pericolose per la società, noi tutti lo siamo perché siamo portatori di vissuti di sottrazione.

La violenza inappagata cerca e finisce sempre per trovare una vittima sostitutiva.Alla creatura che eccitava il suo furore, ne sostituisce improvvisamente un’altra che non ha alcuna ragione particolare per attirare su di sé i fulmini del violento, tranne quella d’essere vulnerabile e di capitargli a tiro. (René Girard, La violence et le sacré)

C’è bisogno di adottare uno sguardo a due livelli: personale e sociale.

  • A livello personale: capire come reagiamo e cosa succede dentro di noi quando subiamo un torto, oppure quando siamo attori di una sottrazione a danno di altri.
  • A livello sociale: capire come possiamo rispondere a sottrazione e/o violenza, in modo non violento, bloccando questo ciclo per quanto è possibile.

Nel prossimo post parleremo di conflitto e della sua genesi attraverso un grande mito fondativo: Genesi 4, Caino e Abele.

Stay tuned!

Photo by Alexis Fauvet on Unsplash

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