Essere professionista nel sociale: tra etica, riconoscimento e personal branding;
Professionista: dichiarazione o riconoscimento?
Capita spesso, soprattutto nel terzo settore, di imbattersi in persone che si definiscono “professionisti”. Una parola che porta con sé autorevolezza, ma che rischia di essere usata come un’etichetta più che come una responsabilità.
La mia riflessione vuole condividere un dubbio più che “spiegare” cosa sia giusto o sbagliato: siamo noi a dichiararci professionisti, o sono gli altri a riconoscerci tali?
Il peso delle parole
Le parole contano. Dire “sono un professionista” non equivale a esserlo davvero. Nella sociologia di Durkheim o nella filosofia del riconoscimento di Honneth, la professionalità non è mai un atto individuale, ma una condizione sociale: esiste solo quando gli altri ci riconoscono come tali.
Eppure, nel sociale, la confusione è frequente: passione e buona volontà vengono scambiate per professionalità.

Il ruolo del personal branding nel terzo settore
Qui entra in gioco il personal branding, che nel mio approccio non è marketing aggressivo né autopromozione sterile, ma cura della propria identità professionale nella sua dimensione visibile e condivisibile. In particolare, nel terzo settore, la figura del personal branding ha alcune caratteristiche specifiche:
- Trasparenza: aiutare le persone e le organizzazioni a comunicare con chiarezza i propri valori.
- Coerenza: dare continuità tra ciò che si fa e ciò che si racconta.
- Distinzione etica: rendere riconoscibile la professionalità, distinguendola da chi si limita a “proclamarsi”.
- Dialogo: aprire spazi di confronto con comunità, stakeholder e beneficiari, senza sovrapporre immagine e sostanza.
Si potrebbe dire che nel terzo settore il personal branding non “costruisce” la professionalità, ma la illumina e la rende leggibile.
Oltre le etichette
Come ricorda Hans Jonas, la vera professionalità è responsabilità: le nostre azioni hanno conseguenze sugli altri, soprattutto quando lavoriamo con persone fragili.
Allo stesso tempo, Paulo Freire ci invita a non confondere l’aiuto con la relazione educativa: non basta esserci, serve metodo.
E allora la domanda si fa urgente: se il professionista non è chi lo dichiara, ma chi viene riconosciuto tale, quale spazio hanno le etichette che ci auto-assegniamo?
Etica della convinzione ed etica della responsabilità
Max Weber distingueva tra etica della convinzione e etica della responsabilità.
L’etica della convinzione porta ad agire in base ai propri principi, indipendentemente dalle conseguenze (“ho agito con buone intenzioni”).
L’etica della responsabilità, invece, valuta gli effetti delle azioni sugli altri e se ne assume il peso (“sono responsabile di ciò che il mio agire produce”).
La vera professionalità nasce dall’equilibrio tra entrambe: avere valori autentici e, al tempo stesso, farsi carico delle conseguenze concrete delle proprie azioni.
Nel sociale questa distinzione è cruciale. Molti agiscono mossi dall’etica della convinzione: la passione, l’altruismo, la volontà di “fare del bene”.
Ma la professionalità richiede un passo in più: assumersi la responsabilità delle ricadute del proprio operato, valutare i limiti, garantire continuità e trasparenza.
Concludendo…
questa riflessione non vuole dare definizioni rigide, ma aprire un dialogo. Nel sociale – ma non solo – la professionalità non è una parola da rivendicare, ma una pratica che si costruisce nel tempo.
Non basta avere convinzioni forti (etica della convinzione), né limitarsi a proclamarsi professionisti. Serve la capacità di assumere la responsabilità delle conseguenze (etica della responsabilità) e, allo stesso tempo, accettare che la nostra identità professionale prende forma nello sguardo e nel riconoscimento degli altri.
In questo senso, il personal branding diventa un alleato prezioso: non per inventare un’immagine, ma per rendere visibile e coerente ciò che già siamo, facilitando un riconoscimento autentico. Forse, allora, il marchio di un vero professionista non sta nelle etichette che sceglie, ma nella fiducia che riesce a generare mettendo in equilibrio valori, responsabilità ed etica del riconoscimento.
Due parole sul personal branding
In questo ambito – quindi nel sociale, nel coaching, nei servizi alla persona – personal branding non significa “vendere sé stessi” come un prodotto (interpretazione riduttiva e un po’ commerciale), ma:
Rendere visibile la coerenza tra quello che sei, quello che dici e quello che fai.
Costruire fiducia attraverso la chiarezza dei valori e dei risultati.
Dare forma narrativa alla tua identità professionale, in modo che sia riconoscibile e leggibile dagli altri.
In pratica: il personal branding è la traduzione comunicativa della professionalità riconosciuta, non la sua sostituzione. Non inventa nulla, ma illumina ciò che già esiste.
Ad esempio, un’assistente sociale che lavora con adolescenti fragili non è “professionale” perché lo scrive sul biglietto da visita. Lo è perché le famiglie la percepiscono affidabile, i colleghi ne riconoscono la competenza e lei stessa agisce con responsabilità. Il personal branding, in questo contesto, consiste nel raccontare in modo trasparente e coerente esperienze, approcci e risultati, così che il riconoscimento non resti solo locale o informale, ma diventi patrimonio condiviso.
In altre parole: il personal branding non ti fa diventare professionista, ma aiuta gli altri a riconoscerti come tale.
Immagine di apertura. Per dare forma visiva a un concetto così complesso mi sono affidata all’AI e preso come riferimento l’universo di Magritte, capace di rendere visibile l’invisibile.
La bilancia: è il simbolo dell’equilibrio e della giustizia, ma in questo contesto può essere letta come il bilanciamento tra la nostra identità “interna” (chi siamo, le nostre competenze, i valori) e l’identità “esterna” (come siamo percepiti e riconosciuti dagli altri). È la responsabilità di tenere in equilibrio sostanza e immagine.
Il volto senza tratti: è la rappresentazione dell’identità sospesa. Non siamo noi a definirci “professionisti” in modo autoreferenziale: il volto prende forma solo nello sguardo dell’altro, nel riconoscimento sociale. Fino ad allora rimane un volto “in potenza”, senza contorni definiti.
Bibliografia
- Cortella, M. (2010). L’etica del riconoscimento. Milano: Raffaello Cortina.
- Durkheim, É. (1893/1997). La divisione del lavoro sociale. Milano: Comunità.
- Freire, P. (1970/2018). Pedagogia degli oppressi. Milano: Gruppo Abele.
- Hegel, G. W. F. (1807/2008). Fenomenologia dello spirito. Milano: Bompiani.
- Honneth, A. (1992/2002). La lotta per il riconoscimento. Milano: Il Saggiatore.
- Jonas, H. (1979/1990). Il principio responsabilità. Torino: Einaudi.
- Weber, M. (1919/2004). La politica come professione. Milano: Mondadori.
- Weber, M. (1922/2015). Economia e società. Milano: Edizioni di Comunità.
Per chi vuole approfondire
- Etica e responsabilità oggi – Hans Jonas, un classico per capire perché le nostre azioni hanno effetti che vanno oltre l’immediato.
- Pedagogia degli oppressi – Paulo Freire, per riflettere sul ruolo educativo e trasformativo delle professioni sociali.
- La lotta per il riconoscimento – Axel Honneth, per capire perché non basta dichiararsi professionisti: lo si diventa attraverso gli altri.
- Economia e società – Max Weber, per esplorare come nasce l’idea moderna di professione.
- La divisione del lavoro sociale – Émile Durkheim, utile per cogliere il ruolo sociale e morale delle professioni.

Splendido articolo Francesca! Hai veramente centrato il punto, il cuore della faccenda, senza tanti giri di parole. Davvero brava, lo inoltrerò a un pò di persone… Un abbraccio. Corrado
Grazie Corrado, detto da te mi inorgoglisce, un abbraccio grande