Il tempo della noia: fertile per alcuni, instabile per altri

Riflessioni tra pedagogia e pensiero rizomatico

Questo articolo nasce come naturale prosecuzione della riflessione sul tempo che ho condiviso di recente.
Se allora mi ero soffermata sul rapporto personale e soggettivo con il tempo, oggi vorrei guardare a una sua forma particolare: quella che in pedagogia viene chiamata “tempo della noia”.

Un tempo che, per molti, è fertile e stimolante, ma per altri non lo è per nulla.

Nel mio articolo precedente (ho parlato del tempo, non quello dell’orologio, ma quello che abitiamo, e che a volte sembra abitare noi).

Oggi mi soffermerò su un’altra declinazione: il tempo della noia.
In pedagogia e psicologia dello sviluppo è considerato da molti un momento prezioso, quasi indispensabile, per attivare creatività, autonomia e nuove iniziative.

Ma quello che funziona per molti, non funziona per tutti.
E per mio figlio — e forse per altre persone con un pensiero che definirei rizomatico — la noia più che un terreno fertile, può essere un territorio instabile.

La noia come spazio fertile

Nella visione pedagogica “classica”, la noia è una sospensione che costringe la mente a inventare, a cercare nuove strade per riempire quello spazio vuoto.
Donald Winnicott descriveva questa zona di “non fare” come il grembo della creatività; per John Holt il problema non è annoiarsi, ma non avere la possibilità di seguire la propria curiosità; e Bertrand Russell arrivava a dire che saper tollerare la noia è condizione per provare le gioie più profonde.

Per molte persone, dunque, questo vuoto è fertile: senza stimoli esterni, il cervello si mette al lavoro per crearne di propri.

Quando la noia diventa instabilità

Per mio figlio, questo meccanismo non funziona.
Il “vuoto temporale” non è un invito all’azione, ma uno spazio senza coordinate.
Dove per altri si attiva la creatività, per lui si attiva l’ansia:

  • il presente si dilata senza struttura;
  • passato, presente e futuro si mescolano;
  • non c’è appiglio per orientarsi.

Il risultato non è un’idea nuova, ma una perdita di rotta.

Ecco perché non posso pensare la noia come condizione necessaria per imparare o per creare. Il suo motore si accende in altri modi.

Un pensiero rizomatico

Definisco “rizomatico” il suo modo di pensare: non lineare, non gerarchico, ma fatto di connessioni simultanee e salti.

Il filosofo Gilles Deleuze usava il termine “rizoma” per descrivere un sistema senza centro, in cui ogni punto può connettersi con ogni altro.

Per una mente così, il tempo vuoto non è pausa: è come trovarsi in una stanza buia senza porte, dove le connessioni abituali non sanno dove ancorarsi.

Il tempo che funziona: azioni delimitate, vista e rituali

C’è invece un “tempo abitabile” per lui:

  • Tempo operativo: dura quanto dura l’azione. Se sbucciamo patate, il tempo è “da quando iniziamo a quando finiamo”. Qui la vista aiuta: da un lato le patate da sbucciare, dall’altro quelle sbucciate. Il tempo diventa visibile: comincia con la prima patata e si conclude con l’ultima (vale per qualsiasi attività).
  • Rituali concreti: la clessidra per il filtro del thè, che rende visibile l’attesa; il “quando ci svegliamo” invece di “domani alle 7:00”, che trasforma un orario in un evento vissuto.

In questi casi, il tempo non è vuoto, ma riempito da un ritmo chiaro e percepibile.

Riflessioni tra pedagogia e pensiero rizomatico. Alternative pratiche alla “noia fertile”

Per chi vive il tempo come mio figlio, il vuoto non è la via, possono esserlo invece:

  • Piccole attività di transizione, semplici e ripetitive, tra un impegno e l’altro.
  • Compiti di attesa: tenere un oggetto, osservare un processo naturale, contare passaggi concreti.
  • Sequenze narrative: “prima facciamo X, poi Y”, al posto di aspetta e poi vediamo.

L’obiettivo resta lo stesso di chi valorizza la noia — autonomia, creatività, iniziativa — ma passando per un tempo strutturato e rassicurante.

Uno sguardo da altre culture

Se in Occidente la noia è spesso vissuta come assenza di stimoli o come rischio di apatia, in molte culture orientali il “tempo vuoto” assume tutt’altro significato.

In Giappone, ad esempio, esiste il concetto di ma (間): l’intervallo, lo spazio silenzioso tra due eventi, che non è mancanza ma presenza discreta, un vuoto che dà ritmo e significato alle cose.

Nella tradizione cinese, il wu wei taoista (“non agire”) non è inattività sterile, ma armonizzazione con il fluire della vita.

E in India, momenti che a noi potrebbero sembrare vuoti sono invece parte della pratica meditativa: non un tempo da riempire, ma da abitare con consapevolezza.

In queste prospettive, la sospensione non genera ansia ma diventa un respiro necessario.
È interessante notare come, mentre mio figlio vive il vuoto temporale come destabilizzante, altre culture lo abbiano ritualizzato e reso abitabile: non “non fare”, ma “fare spazio”.

Una provocazione necessaria

E qui nasce una domanda che non posso evitare:
perché noi, che amiamo definirci “razionali” e “sapienti”, non sappiamo di default riconoscere valore a diverse modalità di percepire e vivere il tempo?

Perché siamo così rapidi a etichettare come “diversa” — e dunque implicitamente come “difettosa” o “priva di valore” — ogni esperienza che non coincide con la nostra?

Forse il problema non è la noia, né la percezione del tempo, ma la nostra incapacità di abitare la pluralità delle forme di esistenza.

La pedagogia tradizionale ha ragione: la noia può essere fertile. Ma la mia esperienza mi dice che non è un principio universale.
Per alcune persone, il vuoto temporale non apre possibilità, le chiude. La creatività non nasce dalla sospensione, ma dalla presenza viva in un tempo con confini chiari e tangibili.

Eppure, invece di fermarci a etichettare queste modalità come “diverse” — e quindi implicitamente “meno valide” — potremmo provare a capovolgere la prospettiva. Ogni cultura, ogni persona, ogni mente elabora il tempo in modo differente: alcuni lo abitano come un flusso lineare, altri come un rizoma di connessioni, altri ancora come un vuoto fecondo.

Forse il vero compito di chi educa, e più in generale di chi vive accanto ad altri, non è scegliere quale forma sia “giusta”, ma riconoscere e dare dignità a ciascuna. Solo così possiamo costruire spazi che non siano né pieni fino all’orlo né vuoti fino all’angoscia, ma luoghi abitabili da tutte le nostre differenze.