L’empatia e il barbiere: un paradosso educativo (e umano). C’è qualcosa che mi disturba profondamente ogni volta che sento dire “mettiti nei panni dell’altro”. Non tanto per la buona intenzione che spesso c’è dietro, quanto per il cortocircuito che questa frase porta con sé. Mi spiego.​

La cosiddetta empatia,

nel suo senso comune, pretende che io possa “sentire come sente l’altro”, “capire come ragiona”, “camminare nelle sue scarpe”. Ma quali scarpe, esattamente? Le mie? Le sue? E chi le sta immaginando? Io.

Questa pretesa di uscire da sé per entrare nell’altro è, a ben vedere, un atto autoreferenziale mascherato. Io uso me stesso — la mia testa, la mia storia, le mie emozioni — per “essere” qualcun altro. Il risultato? Una mia versione dell’altro, e non l’altro.

Qui torna utile un vecchio paradosso, apparentemente lontano dalla pedagogia: il paradosso del barbiere, formulato da Bertrand Russell. In un villaggio c’è un barbiere che rade solo chi non si rade da solo. La domanda è: chi rade il barbiere? Se si rade, viola la regola e se non si rade, dovrebbe farlo. Contraddizione.

Ora, trasponiamolo sull’empatia.
Se io cerco di capire l’altro smettendo di essere me stesso, è impossibile — non posso farlo.
Se invece lo faccio restando me stesso, allora non sto capendo l’altro, sto solo proiettando una mia rappresentazione.

Empatia: un paradosso educativo (e umano)

Questo è il paradosso dell’empatia: pretende di superare l’io usando solo l’io. In realtà, l’altro non è accessibile in modo diretto, e pensare il contrario è rischioso.
Rischioso perché annulla la distanza, fa finta che non ci sia asimmetria, alterità, incomprensione. “Fare il bene dell’altro a modo mio”, che è spesso una forma sottile di violenza epistemica.

Che fare, allora?

Rinunciare all’empatia come identificazione. Accettare invece una neutralità imperfetta, una posizione che riconosce i propri filtri, le proprie distorsioni.

Non “mettersi nei panni dell’altro”, ma accorgersi dei propri, prima di tutto.

Come diceva Gregory Bateson, per cambiare davvero serve un salto di livello. E forse, capire di non poter capire del tutto l’altro è proprio quel salto. Un punto di partenza più onesto, più umano, e — paradossalmente — più vicino all’altro.

Riferimenti impliciti: