E io? – etica non è sparire per l’altro

Per anni ho creduto che prendersi cura degli altri fosse il cuore dell’etica.
Che il mio valore si misurasse in quanto riuscivo a esserci per chi era fragile, ferito, dipendente.
Mi sembrava giusto, naturale.
Fino a quando ho cominciato a sentirmi svuotata.

 

Come se ogni gesto per l’altro mi portasse un passo più lontano da me.

E io-etica non è sparire per l’altro2

E poi ho incontrato Emmanuel Lévinas.

Ho letto le sue parole sul volto dell’altro, che ci guarda, che ci interpella, che ci obbliga.
Mi è sembrato di trovarmi davanti a qualcosa di familiare e profondo:
Sono responsabile dell’altro più di quanto l’altro non lo sia di me.”
Non era una teoria. Era la mia vita.

Ma c’era qualcosa che mi disturbava.

Perché questa etica così intensa, così giusta nei suoi intenti, finiva per ricordarmi troppo da vicino una dinamica che conosco bene:
quella di chi si annulla per gli altri,
di chi non osa più chiedere spazio,
di chi dà senza mai ricevere,
di chi esiste solo nella misura in cui è utile a qualcun altro.

La metafora della diga

Prendersi cura, ho capito col tempo, è come costruire una diga.
Non per contenere, ma per regolare il flusso dell’acqua.
Se la responsabilità verso l’altro è una piena che travolge tutto — anche il sé — rischiamo di trasformare l’etica in auto-scomparsa

Ecco dove entra in gioco Paul Ricoeur.
Non nega quella chiamata etica. Non toglie profondità a Lévinas.
Ma costruisce una diga fatta di racconto, di riflessione, di memoria condivisa.
Dice che possiamo prenderci cura,
ma non a costo di cancellarci.
Dice che abbiamo bisogno di una narrazione che ci contenga, ci nomini, restituisca un volto anche a noi

Una cura che include chi cura

Oggi penso che la vera etica — quella umana, sostenibile, quotidiana — non è fatta di eroi silenziosi.
È fatta di persone che si prendono cura senza perdersi, che danno, ma anche si raccontano, che ascoltano l’altro, ma non dimenticano la propria voce.

Lévinas ci ha ricordato che l’altro ci chiama.

Ricoeur ci ha insegnato a rispondere anche a noi stessi.

E io, dopo tanti anni, ho imparato a dire:

“Sì, sono con te. Ma ci sono anch’io.”