Dare, dare, sempre dare” una frase celebre, iscrizione di un’antica fontana, per parlare di per-dono. Perdonare, perdonarsi: facile?

È nella natura dell’acqua scorrere e riciclarsi e “dare in abbondanza” è il significato etimologico del termine “per-donare”.
Ma se dare è nella natura dell’acqua, delle cose e dell’essere umano, dare in abbondanzacioè “per-donare” è difficile – quotidianità e ricerca lo confermano (Worthington, 2001) e non essere capaci di farlo può essere fonte non solo di sofferenza ma anche di depressione. (Brown, 2004).

Angelica Moè, in “Motivati si nasce o si diventa”, afferma che quando riteniamo di essere stati offesi o trattati ingiustamente, quando affrontiamo un problema o un insuccesso, tendiamo a reagire attraverso diverse modalità (una non esclude l’altra) poste su tre livelli:

  1. Centrate sul problema – in questo caso ci si appella alla giustizia, si ritiene di dover rendere la pariglia (vendicarsi o ricambiare il torto subito), ci si aspetta delle scuse o ci si siede alla riva del fiume aspettando che la giustizia divina faccia il suo corso;
  2. Focalizzate sul significato – ovvero rivedere e re-interpretare la situazione o cercare una giustificazione accettabile a favore del trasgressore;
  3. Direttamente orientate sul vissuto emotivo – sentirsi vittima, negare e cancellare dalla propria vita chi ci ha offeso evitando ogni possibile incontro.

Ma vi è una quarta ipotesi,  il per-dono, un processo che mette insieme la trasformazione del proprio vissuto emotivo, l’accettazione dei fatti e il riconoscimento di essere stati feriti.

Un perdono che può essere ulteriormente distinto in perdono decisionale e perdono emozionale.

Il perdono decisionale (cognitivo) è caratterizzato dal fatto che si sceglie di non rivalersi, di cancellare il debito e riallacciare la relazione. Modalità che tuttavia mantiene le emozioni negative che generano ansia.

Il perdono emozionale invece trasforma le emozioni negative (rabbia, paura, etc.) in positive (compassione, simpatia, amore etc.)

In entrambi i casi il fatto è del tutto individuale, nel primo caso (decisionale) rimane nel “pensiero”, nel secondo (emozionale) invece trasforma la sfera emotiva e le relazioni con se stessi e con l’altro.

Che cosa rende allora così difficile perdonare e perdonarsi?

L’autrice individua almeno tre meccanismi che bloccano il naturale passaggio da una emozione negativa ad una positiva.

  • Il primo si rifà ad una convinzione che diventa aspettativa: Chi deve cambiare? Chi mi ha offeso, oppure io?
    Se ci aspettiamo che sia l’altro, la nostra aspettativa sarebbe facilmente disattesa e la fatica di perdonare aumenterebbe esponenzialmente.
    Non possiamo cambiare gli altri, ma possiamo cambiare noi stessi e le nostre emozioni – quindi perdono emozionale e perdono decisionale.
    L’impegno da prendere con noi stessi è la presa di coscienza che un’offesa subita, un lutto, o un problema di qualsiasi natura, ci ha cambiati e ciò che possiamo e dobbiamo accettare è la nuova versione di noi e dell’altro.
    Se voglio che sia davvero un perdono emotivo sono io a dover cambiare (sono in grado di gestire i miei cambiamenti) e in questo modo la rabbia può diventare gioia.
    A me, ma credo a molti, è capitato di aver trasformato la rabbia di un torto subito in ringraziamento nei confronti di chi mi aveva ostacolato perché, proprio quella “offesa”, aveva favorita la mia crescita e permesso di dotarmi di nuove risorse emotive.
    Una delle difficoltà di perdonare e perdonarsi è accettarsi diversi, capaci di affrontare il futuro non come se nulla fosse successo, ma accettando quanto è accaduto come opportunità di arricchimento personale.
    • Il secondo meccanismo riguarda la tendenza a giudicare e classificare. Se una persona (più o meno vicina a noi) ci fa uno sgarbo, tendiamo a classificarla in modo tale che per noi continuerà ad essere in quel modo, quindi difficile da perdonare.
      Ma se riteniamo il fatto occasionale, la tendenza al perdono sarà maggiore – sarà il comportamento a essere giudicato, non la persona.

     

    • Il terzo riguarda la dimensione del controllo delle proprie emozioni. Possiamo arrabbiarci o non farlo a comando? In genere non siamo attori e anche se facciamo la faccia arrabbiata non significa che lo siamo. Mentre non si possono generare le proprie emozioni a piacimento è possibile invece gestire il proprio stato emotivo e attraverso processi di natura decisionale trasformarlo. Ruolo cruciale in questo ambito sono le strategie di fronteggiamento della situazione e dei propri vissuti emotivi. Sarà più produttivo una modalità orientata sul problema e su come fronteggiarlo che una di evitamento che porta a comportamenti di negazione (fare il broncio o la vittima)

Non aggiungere al male che ti fanno il male che tu stesso ti puoi fare. Anonimo

Serve dimenticare per perdonare?

No, serve invece ricordare bene. Non si può dimenticare il fatto, ma si possono superare le emozioni legate a quell’evento.

Perdonare non significa dimenticare ma rievocare l’evento associando nuove emozioni rispetto a quelle provate in precedenza.

Chi è più difficile perdonare?

Sicuramente noi stessi, accettarsi per come si è, per ciò che siamo e facciamo. Accettarci e perdonarci per non essere perfetti, per non raggiungere ogni traguardo o perché falliamo alcune aspettative. Significa amare la vita, la nostra vita e non una vita ideale.

Quando impariamo a perdonare noi stessi allora siamo pronti anche a perdonare gli altri, in fondo tutti facciamo le stesse fatiche.

L’autrice conclude il capitolo affermando che il perdono:
È un lavoro intimo. Perdono io, non è l’altro a dover cambiare.
È un lavoro emotivo. Non basta scegliere di perdonare: le proprie emozioni devono trasformarsi.
È un lavoro arricchente. Usciamo dal precedente me stesso/a per essere diversi/e e cogliere il divenire che abita in noi e negli altri.

Bibliografia:
Motivati si nasce o si diventa?  – Angelica Moè

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