Giustizia Riparativa, un tema sconosciuto ai più che in apparenza riguarda l’ambito penale.Ho scoperto che riguarda tutti noi.In prima battuta mi sono irrigidita, poi ho cercato di aprire la mente e capire, ora sento il bisogno di approfondire e vedere dove mi porterà questo viaggio.

Più o meno un anno fa mi interrogavo sul senso che avevano i vari insegnamenti del percorso universitario che stavo facendo.

Ciò che allora aveva messo in discussione buona parte delle mie presunte “certezze” riguardava i contenuti del corso di interazioni e i rituali: avevo dovuto rassegnare le dimissioni dal mio passato di assunti e ripartire da zero su parecchie cose.

Tuttavia, la mia ricerca di senso non si è fermata e, completato il percorso di Comunicazione, non paga, ho virato e scelto la magistrale Innovazione e Servizio Sociale. Ero convinta che i contenuti che proponeva mi avrebbero aiutato a perseguire un obiettivo di cui parlerò in seguito, perché continua a ridefinirsi e non so ancora dove mi porterà.

Non avere aspettative è fantastico

Comunque, ancora una volta ho avuto conferma che non avere aspettative è fantastico, forse è l’unico modo per consentire alla vita di sorprenderci. L’insegnamento di cui voglio parlare e che ha acceso tutte le luci del pannello di controllo è iniziato da poco, si tratta di “Analisi dei conflitti, forme della giustizia e pratiche riparative”.

Non avevo la più pallida idea di cosa trattasse. Il tema dei conflitti lo avevo affrontato qualche anno fa frequentando un seminario sugli stadi di escalation di un conflitto tenuto da Friedrich Glasl, ma la cosa non aveva avuto seguito.

La prima reazione, quando ho capito di cosa si trattasse, è stata un misto di stupore, fastidio, resistenza, eccitazione… ahimè ormai ho imparato sulla mia pelle che queste sensazioni sono un mix esplosivo. Credevo di avere tutto sotto controllo, non era così!

Ma come al solito andiamo per gradi.
Quello che propone la Giustizia Riparativa è un vero e proprio cambio di paradigma il cui elemento fondante è lo spostamento di attenzione, dall’autore di reato alla vittima e l’incontro tra le parti.

In ogni caso per capire di cosa si tratta è utile il racconto di quanto è accaduto ad Howard Zehr, criminologo americano, ritenuto il papà della Giustizia Riparativa come la consideriamo oggi.

Questa la sua esperienza

 Una gang di ragazzini aveva distrutto gli steccati di una serie di fattorie dove lui viveva. Il procuratore esasperato lo aveva interpellato e gli aveva chiesto se avesse qualche idea, erano tutti molto giovani e voleva fare un tentativo prima di procedere con la logica punitiva. Zehr agì in questo modo: mise in contatto i ragazzi con le famiglie che avevano subito il danno, ma non perché chiedessero loro scusa. Il suo intento era quello di far capire ai ragazzi quali erano gli effetti che avevano causato con il loro gesto. Le famiglie si erano rese disponibili a raccontare il loro vissuto parlando del tempo che avevano impiegato a costruire le recinzioni, a quanto alcuni avevano dovuto risparmiare per acquistare il legname. Per altri cosa aveva significato completare il lavoro iniziato dai loro genitori e altro ancora.

Secondo Zehr era necessario aprire uno sguardo sulla vita dell’altro e sul valore che rappresentava una cosa apparentemente semplice come una staccionata. Voleva che i giovani capissero che non si trattava solo di pezzi di legno. È stato attraverso il racconto delle vittime che hanno compreso cosa significasse e quanta sofferenza avesse generato nelle loro vite questo atto di vandalismo. Una cosa banale in apparenza, eppure solo attraverso queste interazioni i ragazzi hanno potuto comprendere il disvalore del loro gesto. Non si trattava solo di vilipendio a una proprietà, ma di un gesto negativo che aveva prodotto una maggiore negatività in chi l’aveva subito.

Cosa avrebbero voluto le vittime, essere risarcite? Avrebbero forse preteso fosse data una lezione a questi ragazzi?

In questo caso la dinamica della lezione non è scattata. I proprietari si sono resi addirittura disponibili a investire del denaro per ricostruire le staccionate insieme ai giovani. Sono così nate delle relazioni e i ragazzi hanno capito e sentito il peso del loro gesto. Il mettere a disposizione delle risorse da parte delle famiglie, il fatto di non svolgere un ruolo di vittima in modo passivo ma attivo, ha permesso loro di reinvestire risorse in sicurezza sociale. Stringere relazioni dove non c’erano ha generato sicurezza nella zona, in seguito non c’era più una gang che devastava, ma un gruppo di ragazzi responsabilizzati, molto più attenti e in grado di includere nel loro gruppo altri coetanei potenzialmente a rischio. Una esperienza illuminante che ha generato una serie di conseguenza impreviste. La riflessione di ZEHR è così nata da una esperienza.

La Giustizia Riparativa

tuttavia sta diventando una necessità lo dimostra il fatto che raramente in pochi anni avvengono tanti cambiamenti.
Tutto è iniziato nel 1958 quando Albert Eglash ha cominciato a riflettere sul significato della parola “restituzione”.

Nel 1977 è stato Randy Barnett a parlare di un nuovo paradigma, di un modo nuovo di concepire le cose: da una pena alternativa a una alternativa di pena, ovvero ha cominciato a prendere forma l’idea di cercare un percorso alternativo allo sconto di pena.

Ma è Howard Zehr nel 1985 a fondare la Giustizia Riparativa come la conosciamo oggi.

È un tema complesso, spinoso

che non si può liquidare in poche righe, ho scelto di parlarne perché la cosa più sconvolgente sono i retroscena.

Non si esplode così per caso, non ci si sveglia la mattina inconsapevoli del fatto che oggi qualcuno ci farà del male o noi faremo del male a qualcuno, eppure accade.

La prima riflessione riguarda il passaggio di attenzione dall’autore del reato alla vittima. Perché occuparci di chi subisce il male?

Questo è il viaggio che propongo, nel prossimo post parleremo di desiderio e sottrazione.

Stay tuned.

Photo by Johnson Wang on Unsplash

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