Quando le preoccupazioni per un futuro che neppure posso immaginare mi assalgono, le combatto schiacciandole come fossero delle mosche fastidiose, come se uccise le mosche i pensieri svanissero, si librassero come palloncini. No, di solito la loro resa è momentanea, loro (le bastarde) rimangono lì in agguato pronte a saltare fuori ad ogni minimo cedimento.

Il futuro, come ho già detto lo affrontiamo di schiena, come dovessimo centrare un canestro che sta alle nostre spalle. Difficile ma non impossibile, quindi nei momenti di ansia cerco un ricordo, una esperienza positiva cui ancorarmi.
Potrà sembrare strano eppure tutti noi abbiamo già più e più volte trovato soluzioni e superato ostacoli.

La sfida continua…

Nel mio caso devo ringraziare come al solito Martino, il mio amato figliolo che non ha mai smesso di mettermi alla prova, del resto bisogna tenersi allenati no?

La relazione genitori-figli, figli-genitori credo sia una delle più difficili da gestire. Mi sono chiesta tante volte quale ruolo abbiamo uno nella vita dell’altro, quali siano i doveri, quali le aspettative più o meno legittime.

Ovviamente la cultura cui apparteniamo stabilisce delle regole generali che si differenziano da paese a paese. Noi mamme italiane tendiamo a proteggere i nostri figli a lungo (mettiamola così) a differenza di altre culture in cui a 18 anni si invita con gentilezza ma determinazione i propri pargoli a uscire dal nido e prendere il volo.

Siamo figli che poi, quando sarà il momento non riusciremo a lasciare andare i nostri genitori ma questa è un’altra storia.

Ci sono ruoli e ruoli

Io e Martino siamo cresciuti insieme. A lungo, visti i suoi problemi di autismo, mi sono sentita in dovere di essere più che un genitore: madre, padre, compagno di giochi, carabiniere, educatore, accompagnatore eccetera eccetera, dimenticandomi chi ero e quali erano i miei bisogni.

Eppure, tornassi indietro rifarei esattamente ogni cosa. Ho cercato di fare del mio meglio, sempre e ovviamente con gli strumenti che avevo a disposizione. Ero consapevole che potevo fare un’unica cosa per fare la differenza: cercare altri strumenti.

Una relazione abbastanza conflittuale, gli ho sempre riconosciuto un potenziale enorme che per essere messo a frutto però ha bisogno di impegno e fatica. Da questo punto di vista lui, più che affetto da autismo sembra affetto da sordità, non vuole proprio sentirne parlare.

Le sue resistenze ad un certo punto hanno però dovuto fare i conti con una serie di opportunità che aveva intravisto là fuori e che nascondevano qualcosa di interessante.
Quindi, volente o nolente ha dovuto assumersi una serie di piccole responsabilità maturando altrettante autonomie che hanno reso entrambi più liberi uno dall’altro.

Fino a che punto siamo liberi di scegliere?

Quali sono gli elementi che dobbiamo considerare per operare scelte intelligenti? Quali sono le scelte obbligate? Soprattutto perché chiamarle scelte, se siamo obbligati significa che non scegliamo no?

Vale la pena di fare una premessa, non mi sto riferendo a una scelta binaria o/o, una cosa o un’altra, bensì a una scelta e/e che possa essere una cosa e un’altra ma priva di condizioni.

Sembra impossibile visto che viviamo di condizionamenti, di limiti, di paletti.

Mi piace pensare che ci si possa sentire liberi anche se condizionati da fattori esterni, in fondo siamo noi che costruiamo una forma all’interno della quale ci sentiamo sicuri e protetti e possiamo cambiarla se non ci piace più. Forse.

Gli uomini, per essere liberi, è necessario prima di tutto che siano liberati dall’incubo del bisogno. (Sandro Pertini)

Le priorità

Ho dovuto scendere a patti con me stessa, per sentirmi libera ho superato momentaneamente il mio bisogno di sentirmi tale, costruendomi una scala di priorità che via via cambia ma che parte da un assunto di base: ho scelto di essere madre e questa è la mia priorità. Possiamo disquisire sul come esserlo, sull’evoluzione di questo “mestiere” e mi sono accorta che il margine di negoziazione è ampio, molto ampio.

Ciò che non mi sarei aspettata è che più mi allontano da mio figlio più lui cerca di aumentare il suo grado di autonomia, sbagliando entrambi più e più volte fino ad assumere (come direbbe Marianella Sclavi) che l’abitudine di pensiero adottata non sia funzionale alla complessità.

Ho imparato ad accettare che l’altro (Martino) possa avere ragione, gli ho chiesto di spiegarmi come vede lui le cose e quello che cerchiamo è un punto di vista nuovo non sempre comune ma va bene; sempre meglio che accanirsi a voler cambiare qualcosa che non può essere cambiato.

Certo, ho la sensazione che sia io a faticare di più ma sarà così? Chi può dirlo veramente? Posso forse misurare la fatica altrui?

Che fare allora?

Ritengo che la matassa da sbrogliare sia organizzativa, banalmente liberarsi dall’incubo del bisogno materiale – ovviamente è qualcosa di più ma lo considero un primo passo.

Mi sento libera quando esco dalle aspettative, dalle regole, dalle generalizzazioni e mi rendo conto che i migliori risultati li ho ottenuti proprio così.

Un viaggio in solitaria pur in compagnia di altrettanti viaggiatori con cui confrontarsi, con cui condividere un pezzo di strada, consapevole che comunque vada è a noi stessi che dobbiamo rendere conto.