Alla fine di ogni semestre del percorso universitario che sto seguendo mi interrogo sul “senso” che i corsi frequentati in quel periodo hanno avuto, se mi hanno o no arricchito di nuova conoscenza, di nuovi valori.

Una laurea in comunicazione che trae dalla sociologia molti spunti, cosa che ho apprezzato molto e mi ha aperto un mondo che non conoscevo e per una serie di motivi non avevo mai considerato.

Tra i vari insegnamenti quello che mi ha “toccato” maggiormente esplora le interazioni e i rituali, non mi è ancora chiaro se “colpa o merito” siano dell’argomento o del docente, ma fin da subito ho dovuto rassegnare le dimissioni dal mio passato di “certezze” e ripartire da zero su parecchie cose.

L’affermazione che mi ha fatto caracollare dalla sedia è stata: “decostruire credenze e costruire rappresentazioni“, o my God che cosa voleva dire?

È accaduto in una delle prime lezioni, non è stato subito chiaro cosa stava accadendo lì, ma pian piano ho capito che decostruire significava togliere tutti gli involucri di quel pacchetto confezionato nel tempo, involto dopo involto.

Strati e strati. Ogni involucro tolto ne metteva in luce un altro, e un altro ancora fino ad arrivare al contenuto.

Ci voleva tanto, tantissimo lavoro e impegno. Significava togliere tutti gli strati accumulati nel tempo, uno a uno fino a diventare totalmente nudi e per questo vulnerabili.

È così che mi sono sentita, vulnerabile e impaurita.
La cosa che mi ha rassicurato, dopo lo sbigottimento iniziale, è che solo la nudità, l’essenzialità, potevo motivarmi a cercare una nuova serie di lenti che mi avrebbero permesso di guardare le cose sotto una nuova luce, con uno sguardo nuovo e con una maggiore obiettività.

Quello che fino a quel momento tendevo a considerare “sbagliato” poteva non esserlo più, o meglio, si proponeva come un’opportunità che, bonificata, poteva essere rimessa in gioco.

Non siamo abituati, e del resto neppure educati, a cercare il senso ultimo delle cose, tendiamo invece a darle per scontate replicando comportamenti (rituali) senza chiederci quale sia il significato.

Perché in un matrimonio si taglia la cravatta allo sposo?

Forse un rituale in disuso ma, giusto per fare un esempio, quanti di chi lo compie ne conosce il significato simbolico?

Qual è quindi il senso?

Viaggiamo con il pilota automatico inserito nella marcia che chiamiamo senso comune.

È ovvio che non possiamo tutti i giorni re-imparare ogni cosa, la quantità di energie che questo comporterebbe ci lascerebbe incapaci di apprenderne di nuove, ma il rischio opposto è che siano loro, le abitudini a condurre la nostra vita, facendoci accomodare sul sedile posteriore della nostra auto, come degli automi.

Ho capito che dovremo imparare a interrogarci su cose e motivazioni che ci portano a fare una cosa piuttosto che un’altra anziché lasciare che sia l’istinto gregario a guidarci giustificandoci che è così che funziona, che è sempre stato fatto così. Interrogarsi significa fermarsi a pensare, un dialogo interiore che opera una trasformazione e ci rende responsabili e consapevoli.

Cercare il senso. La parola senso evoca apertura al mondo, portare in rilievo il mondo attraverso i nostri sensi ma anche direzione lungo la quale ci dirigiamo.

Con-senso non solo sono d’accordo, ma è anche il modo con cui metto in rilievo quello specifico pezzo di mondo.

Facile? No, non lo è per nulla, perché prevede impegno e fatica e noi di far fatica proprio non vogliamo saperne.

Fare il vuoto, riflettere, valutare…

Mi capita periodicamente di chiedermi se e quale senso abbia quello che sto facendo, ma l’unico modo che ha funzionato finora è stato fermarmi, fare il vuoto e riflettere, valutare, comparare.

I nostri percorsi formativi continuano a portare nuove voci dentro di noi e ognuna di loro pretende di sovrastare le altre e avere l’ultima parola.

Il punto è, che per cogliere il senso va riattivata la consapevolezza, una polisensorialità, una via differente che non è fatta di routine cognitive ma di routine corporee, emozionali.

Attraverso il silenzio creiamo uno spazio di ascolto che accoglie e nel quale possiamo accorgerci, stupirci e re-imparare a esercitare l’arte della meraviglia di cui ognuno di noi è dotato, sempre pronta ad attivarsi.

Se impariamo a chiederci il perché delle cose e, attraverso la consapevolezza, attribuire quello che in quel momento riteniamo essere il corretto significato, tutto cambia.

Certo siamo esseri in movimento e la rappresentazione di uno stesso evento varierà in funzione di come noi saremo quando andremo a osservarla.

Il qui e ora leggerà in modo sempre nuovo il lì e allora del nostro passato ri-attribuendo un diverso e nuovo significato, questo io lo trovo straordinario.

Provo un profondo senso di gratitudine nei confronti della vita che non smette mai di stupirmi, soprattutto in tema di incontri che a volte la vita te la cambiano davvero.


La parola è autentica quando procede dal silenzio

(R. Pannikar, 1986)